Perché leggere “Io sono confine” di Khosravi
Marco Gatto fa parte dei soci fondatori dell’associazione Penny Wirton. Fin dal 2010 ha contribuito alla fondazione di diverse postazioni in Calabria, regione in cui – tra le altre e tante cose che fa – insegna all’Università. Marco, tra una lezione e l’altra, ha scritto anche diversi libri e articoli sulla teoria della letteratura e della critica sociale. In questo post ci dà molti buoni motivi per leggere Io sono confine di Shahram Khosravi. E alla fine della lettura, forse, scopriremo che ognuno di noi è un confine
Perché leggere Io sono confine di Shahram Khosravi
di Marco Gatto
Alcuni libri colpiscono sin dalla dedica. Io sono confine di Shahram Khosravi – finalmente tradotto nella nostra lingua da Elena Cantoni per i tipi di Elèuthera, a nove anni dalla sua prima uscita in inglese – ne presenta una assai eloquente, che suona così: «Per i miei antenati sconfitti: Walter Benjamin e Edward Said». Due figure importanti della critica sociale e della modernità; due intellettuali animati, seppure in modo diverso, dalla furia dell’utopia. E, ci ricorda Khosravi, due perdenti. Il motivo di questa sconfitta, insieme alle necessità di un rilancio della partita, sta tutto nelle pagine iniziali di questo straordinario libro, che, come recita il titolo originale, altro non è che un’«auto-etnografia delle frontiere». Nel riconoscere il suo coinvolgimento personale in qualità di migrante, l’autore non intende esimersi della lotta per un’oggettività possibile. E qui sta la sfida, tutta moderna, di Khosravi: quella di mettere insieme, si sarebbe detto un tempo, soggetto e oggetto.
Il soggetto è chi scrive. Iraniano, renitente all’obbligo di arruolarsi per combattere la guerra contro l’Iraq (siamo nel 1986), fuggitivo senza una meta e clandestino, in balia dei confini e del commercio di uomini, esule approdato per caso in Svezia, vittima di un attentato ad opera di uno xenofobo, sperimentatore di quella che un grande teorico, Abdelmalek Sayad, ha chiamato la “doppia assenza” (quella di chi lascia per necessità il suo paese e di chi, approdato in una terra straniera, continua a sentirsi incompleto, inadatto), ricordandoci l’estrema complessità del fenomeno migratorio. L’oggetto, invece, è la straordinaria riflessione sulle conseguenze umane, sociali e politiche dello sradicamento, che Khosravi allinea con un’acribia lodevole. Le pagine introduttive di Io sono confine sono un esempio di chiarezza espositiva.
Anzitutto, l’antropologo ci ricorda che è in atto un vero e proprio commercio delle frontiere. Si erigono muri come fossero merci da consumo. Se la grande utopia moderna e cosmopolita ha comunicato la necessità di unire ciò che era separato, il nostro presente decreta un’inversione di tendenza. Non bisogna arrivare a Donald Trump. Restiamo dalle nostre parti. È notizia di quest’anno la proposta, targata Lega, di erigere un muro lungo 243 kilometri in grado di arginare supposte migrazioni provenienti da Est e di tutelare i confini nazionali da chissà quale invasione. Non si tratta di un’iperbole; è una conseguenza della cultura razzista che in Italia si sta diffondendo da decenni. Istanze autonomistiche segnano, del resto, un’Europa sempre più impaurita dal tracollo economico. Ma non si tratta di semplice istinto di protezione. Lo ricorda Khosravi: «Ciascuno di questi muri è stato eretto da uno Stato ricco contro una nazione povera»; ciascuno di questi muri si spiega, pertanto, con ragioni che dipendono dalla distribuzione delle risorse e dalla paura che altri arrivino a usufruirne.
I muri condannano chi sta dall’altra parte a restare nelle sue condizioni. Non sono regolatori di mobilità, come vorrebbe una certa retorica della protezione nazionale. Bensì, «impongono l’immobilità», e spesso la presentano come naturale. Pur essendo destinate a deteriorarsi, le frontiere hanno un valore simbolico che mira a porsi come permanente. La frontiera – mi piace ricordarlo: è stato Alessandro Leogrande a ribadirlo più volte in questi ultimi anni – «segnala che chi sta dall’altra parte è diverso, indesiderato, pericoloso, contaminato, persino non umano». Di questo “altro” sconosciuto, in verità, non sappiamo nulla, in ossequio a un ormai radicato atteggiamento coloniale: gli neghiamo persino la storia o la parola, o lo rappresentiamo secondo le nostre precostituite e interessate categorie, sicché il giudizio sulle politiche di respingimento o integrazione resta vacuo o preda della semplificazione giornalistica.
Le frontiere sono un utilissimo mezzo di persuasione organizzata e un potentissimo fattore di consenso. Ma allo stesso tempo, ci ricorda Khosravi, sono un segno di debolezza. L’invito che l’autore rivolge a se stesso e al lettore è dunque il seguente: «che cosa si vede se guardiamo il confine dall’altra parte?». Non si tratta di una mossa retorica. Nelle pagine di Khosravi il concetto non si compiace mai di sé; non c’è spazio per il falsetto. Non c’è vittimismo, né sbilanciamento letterario. Perché l’antropologo-scrittore sa di essere completamente inserito nel quadro di analisi ed è convinto che le sue categorie, pur irrinunciabili e radicate, possano rivelarsi inefficaci. «Un approccio alle frontiere intellettualmente onesto e politicamente responsabile deve infatti basarsi su una storicizzazione radicale in grado di denaturalizzare e politicizzare ciò che l’odierno regime delle frontiere ha naturalizzato e spoliticizzato»: come a dire che occorre mettere in campo tutta la complessità dinamica, materiale, spirituale e dialettica per avviarsi a una comprensione reale dei nostri tempi. Solo in questo modo, ci dice Khosravi, sarà possibile articolare le voci dei dimenticati e dei dannati della terra, soffocate dalla storia ufficiale, che si colloca sempre da questa parte, cioè dalla parte di chi può scrivere il destino degli altri.
Credo in fondo sia questa la lezione profonda di Io sono confine, di cui si è riassunta una piccolissima porzione di senso (il racconto del viaggio verso una libertà possibile, che occupa gran parte del libro, regala molto altro, anche in termini concettuali): uno sguardo auto-critico, a partire dalle parole e dalle rappresentazioni che usiamo e diffondiamo, ci impone di limitare, nella nostra pratica quotidiana, la riduzione dell’altro a mero oggetto, a qualcuno che esiste solo in nostra funzione. Il passaggio dalla tolleranza all’ospitalità vera – a un’ospitalità che poi evapora nel riconoscersi uguali – è lento e faticoso, ma non per questo impossibile