Migranti: Sergio, l’integrazione come sfida
È il 12 giugno 2019. È terminato un altro anno alla scuola Penny Wirton di Roma. Sergio Ventura, insegnante di religione del liceo Tasso, insegna alla scuola d’italiano gratuita per migranti insieme ai suoi studenti in alternanza scuola-lavoro. In un articolo comparso sul quotidiano Osservatore romano fa un viaggio tra i pensieri dei suoi ragazzi e ci aiuta a riflettere sul valore della relazione umana e dell’integrazione definita qui una vera e propria “sfida”. Quello che segue è un estratto dal suo articolo, scritto “dopo trentacinque settimane di lezioni svoltesi sempre di martedì e mercoledì pomeriggio, riservando il giovedì alla formazione dei nuovi insegnanti volontari”.
Gli studenti diventano insegnanti e raccolgono la sfida
di Sergio Ventura
Docenti, studenti universitari, altri lavoratori in pensione, ma anche giovani delle scuole superiori, spesso indirizzati verso la Penny Wirton dai propri insegnanti di lettere, storia e filosofia, religione. Di questi ragazzi, Alberto, Angelica, Edoardo, Eva, Flaminia, Giorgia, Paola, Pietro e Wally hanno accolto la nostra proposta di condividere con i lettori qualche riflessione originata dal servizio svolto: parole da mangiare, però, con la stessa gradualità e delicatezza che loro stessi hanno sperimentato per primi in quei sotterranei. Alcuni, infatti, hanno confessato di aver tentato la “sfida” perché il percorso “dava ore di Alternanza scuola lavoro”, altri di essere stati inizialmente preda dell’ansia o di una certa confusione per ciò che avrebbero incontrato, altri ancora di aver preso la decisione in modo del tutto incosciente. Eppure, non c’è stato uno studente o una studentessa per cui questa esperienza ardua e difficile non sia stata al contempo toccante e impressionante.
“Perché – dice sottovoce Alberto – tasti veramente con le tue mani le vite sopravvissute di persone che un anno prima hai visto al tg sbarcare al porto di Catania o in mare aggrappate alle ciambelle di salvataggio”; perché, ammette Eva, “fa male scoprire questo genere di realtà”, “a partire – aggiunge Angelica – da quelle cicatrici che alcuni di questi miei coetanei avevano sugli zigomi e la cui origine non si vergognavano di raccontare”. D’altronde, sin dal mito della caverna di Platone e dal libro del Qoèlet, dolore, fatica e sofferenza sono inseparabili dall’acquisizione di nuove conoscenze, di vere e proprie apocalissi “che – riconosce Wally – ti aprono gli occhi, ti svelano che dietro a un numero sterile o ai rumorosi slogan politici si nascondono ragazzi, genitori e nonni”, che “la distanza tra noi e loro “non sono altro che 50 centimetri di banco scolastico”. Il problema, fa notare Giorgia, è che “questo piccolo spazio posto tra insegnante e allievo, quando sono seduti l’uno di fronte all’altro, può diventare uno scoglio insormontabile” che “può, anzi deve essere superato – suggerisce Eva – solo mediante un salto”.
Senonché, insegnava Kierkegaard, questo salto è sempre un salto della fede, ovvero, nei termini più laici dei giovani d’oggi, il salto che si compie nel fidarsi dell’altro, nell’affidarsi all’altro. Infatti, ricorda Alberto, “se non c’è fiducia reciproca il messaggio e l’insegnamento non passano assolutamente: ogni volta c’è sempre l’incognita dello studente che cambia e appena arriva lo studente nuovo, in una frazione di secondo, bisogna conquistare la sua fiducia, farsi carico del suo sguardo”, sia quando esso è “pieno d’imbarazzo”, come nota Giorgia, sia quando “ti guardano con gli occhi lucidi, sorridenti, solo velati di malinconia, e il timore di dire la parola sbagliata o di fare domande personali passa subito”, come testimonia Angelica.
Se vuoi leggere l’articolo integrale di Sergio Ventura allora clicca qui, su “Dare le parole a chi non le ha”