Un amore multiculturale
Zea Rehman è pakistano ed è arrivato in Italia quando aveva 12 anni. Dal 2009 vive a Senigallia. Qui, oltre a frequentare la Penny Wirton, scuola di italiano gratuita per migranti, Zea ha frequentato l’istituto alberghiero e ha incontrato Federica: coetanea, italiana. In questo racconto, affidato all’insegnante volontaria Paola Via, Zea ci porta per mano tra le difficoltà di una storia d’amore tormentata a causa della contrarietà della sua famiglia d’origine. Non soltanto. Zea ci mostra anche tutti i problemi di un ragazzino che, da un giorno all’altro, si trova tra coetanei che non parlano la stessa lingua e che non fanno gli stessi giochi, deriso ed emarginato in una scuola completamente diversa da quella del suo Paese d’origine, dove gli alunni impreparati vengono presi a bacchettate. Eppure, nonostante questo, in Italia “ho scoperto che esiste un altro dolore, più forte di quello fisico delle bastonate: è quello dell’umiliazione e della solitudine”, dice Zea che oggi si sente parte della comunità di Senigallia, anche grazie alla relazione sentimentale avuta in passato con Federica e raccontata nel libro “Tutto accade in silenzio”.
Un amore multiculturale
Paola Via intervista Zea Rehman
Quando sono arrivato in Italia all’inizio è stata molto dura. Settembre è stato il mese in cui tutto ha avuto inizio. Nuova scuola, nuovi amici, nuova vita. Ogni giorno percorrevo 6 chilometri a piedi per andare a scuola. In Italia la scuola è molto diversa. In Pakistan ogni mattina, in aula, ci aspettava il preside con un bastone in mano. Subito dopo ci metteva in fila indiana e uno a uno ci guardava, chiedendoci di fargli vedere le unghie e se avevamo svolto i compiti. Poi ci dividevano in due gruppi: chi non aveva le unghie curate e chi aveva svolto correttamente i propri doveri. I disobbedienti venivano puniti con delle bacchettate sulle mani. Facevano malissimo. Così ho imparato il rispetto. In Italia era tutto diverso. Niente bacchettate, niente preside, niente preghiera del mattino. Eppure, anche se la scuola italiana sembrava un sogno, stavo male. Non avevo amici, non parlavo con nessuno. Ero uno straniero in mezzo a tanti stranieri. E ho iniziato a sentire nostalgia per il mio Paese, gli amici che avevo lasciato, i miei parenti. Ma sapevo che dovevo farmi forza, andare avanti e ricacciare giù con un nodo alla gola quella nostalgia. Ho scoperto che esiste un altro dolore, più forte di quello fisico delle bastonate: è quello dell’umiliazione e della solitudine.
Il primo anno di scuola media è trascorso così: in classe, da solo, senza dire nulla. Era giunto il momento di cambiare scuola, ma io non sapevo cosa volesse dire perché da noi questo passaggio non esiste. Un mio professore mi ha aiutato a fare l’iscrizione e scelse quello che riteneva meglio per me: l’istituto alberghiero. Per me una scuola valeva l’altra. Intanto cominciò l’estate e per la prima volta vidi una spiaggia piena di gente. Da noi non c’era il mare. Qui tutti erano in costume, pronti per prendere il sole. I bambini giocavano con la sabbia. Le risate arrivavano da ogni parte. Mi giravo intorno e mi stupivo di vedere ogni singola cosa. I miei amici mi invitavano spesso per andare al mare, ma non ci andavo volentieri perché la mia pelle al sole diventa subito molto scura e non volevo mi prendessero in giro.
Poi sono iniziate le scuole superiori. All’inizio è andata male, poi meglio. Il primo giorno di scuola ero felice perché avevo voglia di imparare, ma anche molto nervoso: avevo paura. E avevo ragione. Iniziarono a insultarmi. “Sei nero, fai schifo, sei musulmano, puzzi, mangi la cipolla”. I compagni mi facevano gli scherzi, mi rubavano la merenda. Una volta mio padre era dovuto tornare in Pakistan e mi aveva lasciato 50 euro, i soldi per la spesa di settimane. Rubati anche quelli. Ma io non dicevo niente a nessuno, agli insulti non rispondevo e facevo finta di nulla. Quei bulli mi usavano per i loro comodi: mi mandavano a comprare le sigarette. Io accettavo, per farmeli amici. E ho iniziato a fare come loro. Non studiavo, non mi impegnavo, perdevo tempo. Quell’anno mi sono fatto bocciare.
Federica l’ho vista al corso di teatro organizzato dalla scuola. Ero timido, ma non vedevo l’ora di imparare qualcosa. Perché ho un grande sogno nel cassetto, quello di fare l’attore. Poi arrivò lei. Quegli occhi grandi e marroni, gli occhiali neri e i capelli lunghi e castani mi colpirono subito. Era fantastica. Volevo sapere come si chiamava, volevo conoscerla. All’inizio non è stato facile, non sapevo nulla di lei, nemmeno il nome e non avevo idea di come rintracciarla. Non sapevo come fare a rivederla, ma io ovunque mi girassi, vedevo lei.
Dopo un po’ di tempo però Zea e Federica si conoscono, iniziano a frequentarsi assiduamente e inizia qualche problema con la famiglia di lui.
Purtroppo le famiglie che vengono da fuori pretendono che i loro figli continuino a pensare con la mentalità del loro Paese. Non vogliono che i figli pensino, si divertano o vestano alla maniera occidentale. E allora io dico, cosa li portano a fare, se non possono fare niente? Quando ho detto a mio papà che volevo fare teatro e andare a ballare come i ragazzi del posto, mi ha chiesto se fossi omosessuale. Perché in Pakistan solo i gay ballano o recitano. In Pakistan i genitori non conoscono nulla dei loro figli: non sanno cosa fanno, chi frequentano, cosa desiderano o pensano. Non c’è dialogo. Non sono interessati a loro. È una questione di sopravvivenza. Io per esempio sono il decimo di undici figli. I genitori sono capi, egoisti, non danno alcuna libertà. In famiglia non si scherza, non si ride, non si va a cena. Tu della tua vita poco o nulla puoi decidere. Tutte le persone fanno la stessa vita. Sempre identica a se stessa. Ed è peggio se sei donna. La tua vita è questa da subito: vai a scuola fino a 17-18 anni e poi prendi marito prestissimo. Un marito che non scegli. Che vedi di persona il giorno del tuo matrimonio. Con cui non hai scambiato alcuna parola prima. La legge non viene rispettata. Non c’è nessun controllo. L’unica legge che vige è quella della famiglia, degli adulti. Xsana ne è un esempio: te la ricordi? Ne hanno parlato tutti i giornali. Lei è una ragazza di Brescia che si è innamorata di un ragazzo italiano. I genitori, appena l’hanno scoperto, l’hanno riportata in Pakistan e l’hanno uccisa. Perché lì non succede niente se fai una cosa del genere. È normale.
Ci sono un paio di miei amici che hanno avuto la mia stessa storia. Andavano alla scuola media e venivano spesso presi in giro con cori razzisti. Ma passavano tutti i giorni soffrendo in silenzio perché volevano rimanere nel cerchio familiare. A loro piacevano le ragazze, ma si vergognavano. Alì si è innamorato di Chiara, una ragazza che ha conosciuto a scuola. Io l’ho aiutato a scriverle una lettera e a dargliela. Ma il padre appena l’ha saputo l’ha riempito di bastonate e riportato in Pakistan. Ho anche un caro amico di famiglia che è qui da 15 anni, un lavoro sicuro e 3 figli, due vanno alle elementari e uno adolescente. Siccome si è accorto che i figli stanno prendendo la mentalità italiana, e lui non vuole, li riporta in Pakistan. Per sempre. Nessuno pensa a questi figli? A come si sentono? Qui sono nati, hanno amici, relazioni. Non si può farli crescere in un Paese libero e poi riportarli da dove sono scappati come nulla fosse. A chi parte voglio dire che non può farlo solo per guadagnare. C’è in gioco la vita di altre persone. È un fatto culturale. A volte il problema è anche nostro. Alcune donne pakistane per esempio non vogliono cambiare, non vogliono integrarsi né conoscere la cultura italiana. Shaima per esempio è in Italia da sei anni, ha figli e un marito che lavora, ma guai se le dici che deve imparare la lingua o cercarsi un lavoretto. Neanche a parlarne prenderebbe un libro di italiano in mano. Per non parlare delle donne di qui: per lei sono troppe libere, vanno in giro mezze nude.
Io mi sento molto fortunato. Ai ragazzi che hanno avuto la mia stessa storia dico di non mollare, di non perdere la speranza. Alla mia famiglia sono e sarò sempre grato. A loro devo la vita. Ma cambierei completamente il loro modo di pensare. Non si può basare la propria vita sulla religione. Prima bisogna conoscere le persone, poi si può giudicare. Io sono una testa calda e non ho mollato. Per due anni ho tenuto la mia storia con Federica nascosta ai miei. Per due anni ci siamo visti di nascosto, ho inventato mille scuse per incontrarla anche solo per pochi minuti, poterla vedere o parlare. Mai una cena fuori, mai una passeggiata in mezzo alla gente. Questa è stata la cosa che mi è dispiaciuta di più. Aver dovuto limitare la sua libertà, averle imposto la mia cultura. Ora ho capito che è sbagliato. Da poco ho fatto in modo che mio padre sapesse di me e Federica. Ora non ci parliamo, non mi dice e non chiede niente e questo mi fa soffrire molto. Ma so che è solo questione di tempo.