Migranti e coronavirus: o ci salviamo insieme o nessuno si salverà
Le scuole chiuse e le lezioni a distanza; il dispiacere per la lontananza e i buoni auspici per il futuro,;la solitudine e l’importanza di fare rete. Sentimenti opposti, che vanno da un capo all’altro delle emozioni, si incontrano in questa lettera della Penny Wirton di Forlì, che ci ricorda che a questo mondo siamo tutti interconnessi e, in questo periodo in cui affrontiamo l’emergenza coronavirus, più che mai . Quindi “o ci salviamo insieme o nessuno si salverà”.
O ci salviamo insieme o nessuno si salverà
di Penny Wirton Forlì
Quando abbiamo cominciato a comprendere che il coronavirus non era come un’influenza qualsiasi, in sé e soprattutto nei danni collaterali, abbiamo organizzato un incontro dei nostri volontari con un medico dell’associazione Salute e solidarietà di Forlì. Eravamo solo 18, cioè meno della metà dei nostri volontari, un po’ per l’orario e un po’ per la preoccupazione (giovani mamme, giovani nonni…). Eravamo già a distanza di sicurezza uno dall’altro, anche se a Forlì ancora non si sapeva di contagiati.
L’incontro è stato molto interessante e infatti avevamo deciso che alla prima lezione successiva avremmo svolto solo un lavoro di informazione, che tra l’altro ci avrebbe consentito di rispettare le distanze di sicurezza. Ma quella lezione non s’è tenuta, perché, due giorni dopo, le scuole sono state chiuse. Per telefono ci siamo chiesti cosa fare. E ci siamo accorti che nelle indicazioni nazionali, regionali e locali erano sparite tante persone: i migranti. E avremmo scoperto di lì a poco che mancavano tanti altri: i senza casa, i detenuti…
Ci doveva forse essere una cura particolare? Sì, ci doveva essere una cura, nel senso di attenzione, particolare e tempestiva.
Noi conosciamo bene i nostri ragazzi. Sappiamo che a volte possono dare l’impressione di capire bene l’italiano, ma poi nei fatti non è così. E non lo è soprattutto se le parole usate sono quelle che sentiamo tutti i giorni in tv dai medici, dagli scienziati, dagli esperti. La metà degli italiani non le capisce. Forse hanno dei figli o dei genitori che gliele possono spiegare. Ma i nostri ragazzi chi hanno?
E allora ci siamo messi di impegno. Abbiamo fatto girare vari messaggi scritti, vocali e soprattutto semplificati, tradotti in varie lingue, compresi i cosiddetti dialetti. Ma questo non poteva bastare. Perché parlare senza vedere negli occhi le persone non dà certezze. E allora abbiamo parlato direttamente con le persone. Cercandole, organizzando chiacchierate in 3 o in 4, parlando con quelli che incontravamo, compresi gli sconosciuti. Ancora si poteva.
E ci siamo accorti che nessuno sapeva niente. Nessuno aveva capito l’importanza dei comportamenti individuali. Nessuno aveva capito che quello che c’era prima nelle nostre vite non poteva esserci più per qualche settimana: la scuola, la partita di calcio, gli inviti a cena, le chiacchiere in piazza, gli amici che vengono a trovarti o che vai a trovare, la mensa alla Caritas. Per due settimane, forse di più, erano cose che non si potevano più fare. Adesso speriamo che ci voglia solo un mese ancora. Ma sembra che ci vorrà di più.
Questo grande lavoro è stato fatto non solo per i ragazzi, ma per tutta la città! L’ottusità delle persone impaurite dagli stranieri si rivolta contro loro stesse. La non conoscenza personale, diretta di queste persone che vengono da lontano, il disinteresse nei loro confronti, la loro trasformazione in invisibili, la paura ingiustificata e inaccettabile avrebbero potuto essere tutte cause di un disastro.
Un disastro per tutti. Perché i disastri non chiedono i documenti, non pretendono il permesso di soggiorno, non si fermano ai confini. Ecco una lezione da imparare. Da ricordare. Da portare nelle prossime lezioni della nostra scuola: nessuno può sperare di salvarsi da solo o addirittura contro gli altri.
O ci salviamo insieme o nessuno si salverà.
Per questo non vediamo l’ora di riaprire la Penny Wirton.