Migranti: mio nonno, Ahmed e… la normalità
Normalità. In dieci mesi di pandemia abbiamo usato spesso questa parola. Abbiamo sperato di tornare presto alla normalità, ci è mancata la normalità, ci siamo chiesti che cos’è la normalità. E ci siamo risposti che è un abbraccio, salutarsi con un bacio sulla guancia e una stretta di mano, riunirsi in un luogo e non stare a badare a quanto è affollato, sorridersi senza una mascherina sul volto a confondere le emozioni, incontrarsi invece che vedersi attraverso uno schermo.
L’emergenza Covid ci ha messo davanti a tutto ciò che diamo per scontato, come una guerra che ti toglie un piatto di pasta davanti a un camino caldo la sera, un abbraccio prima di andare a letto.
In questo racconto che arriva dalla Penny Wirton, scuola di italiano gratuita per migranti, di Senigallia, Lisa D’Ignazio ci porta vicino al dolore e ci indica come fosse una stella polare i valori che stiamo riscoprendo, nonostante la pandemia stia ampliando divari sociali e disuguaglianze.
Mio nonno, Ahmed e… la normalità
di Lisa D’Ignazio
Mio nonno è tornato a piedi dalla Russia. Me l’ha raccontato tutti i pomeriggi della mia giovinezza davanti al fuoco. Aveva solo due denti, mio nonno. Eppure anche solo con i suoi due denti riusciva a sorridere, anzi rideva a crepapelle, quando iniziava a ricordare l’unico momento bello di quella marcia all’indietro verso la salvezza. Erano sul treno, appena preso dopo mesi e mesi di neve russa e poi polacca, vento balcanico, cibo e vestiti donati dai contadini poveri ma buoni della terra del Don. Finalmente dopo che il tempo si era fermato sui suoi piedi ghiacciati per troppi mesi, era riuscito a toccare il suolo italiano e ora eccolo arrivato quasi a casa. Era giunto nelle Marche. Nonno Gaetano insieme ad altri quattro fuggiaschi amanti della libertà e della vita erano ancora in viaggio, su un treno che correva vuoto.
UN TRENO VERSO CASA
Il treno, ah la modernità! E chi l’aveva mai preso? Dove doveva andare un contadino mezzadro del profondo Abruzzo? Il treno della libertà stava per raggiungere la città di Fano, quando il macchinista improvvisamente gridò loro: “Saltate, saltate ci sono i tedeschi!”. Rallentando i vagoni in corsa, il macchinista consegnò i quattro alla salvezza. Mio nonno a questo punto del racconto iniziava a sorridere, poi metteva in bella mostra i suoi due denti e sembrava avere davanti quello che quel giorno si trovò sotto ai suoi piedi, mentre atterrava all’improvviso saltando dal treno: un campo sterminato di pomodori, rossi, maturi, succosi, buonissimi. Una vera prelibatezza per labbra e stomaci che sognavano di mangiare da giorni, che stavano pregustando il ritorno a casa, ma anche un bel piatto di pasta, un bicchiere di vino e un pezzo di pane. Quando alle due di notte del giorno dopo mio nonno bussò alla porta di casa sua, la sorella aprì. Era tornato. Vivo. Era la cosa più bella del mondo, la fine dell’angosciosa attesa. Non c’era nient’altro che fosse più importante. Anni e anni ad aspettare di riabbracciare la propria famiglia senza sapere quando e come, senza sapere se il destino avrebbe risparmiato lui e i suoi familiari. Anni di paure e angosce, incertezze. Anni di solitudine. Mio nonno si era ritrovato, ancora ragazzino, solo di fronte alla vita e a un destino che non aveva scelto. Era quello che doveva e poteva fare, non aveva avuto altre possibilità.
VIAGGI CHE SONO STORIE
Penso sempre a mio nonno quando incontro Alì, Joshua, Lucky, Ibrahima, Precious, Naima. Ahmed a 14 anni ha attraversato i Balcani, respinto più volte tra un confine e l’altro dalle varie polizie di frontiera fino a quando è arrivato in Italia. Non vede la sua famiglia da due anni e non sa quando potrà avere questa fortuna. Ibrahim ha impiegato quattro anni della sua vita per venire dal Mali fino all’Italia. Non aveva abbastanza soldi per pagarsi tutto il viaggio. Si è dovuto fermare tante volte per lavorare e mettere da parte i soldi e poi ripartire, cercando di sopravvivere tra polizia corrotta, banditi e trafficanti. Ibra non sa nemmeno se potrà tornare ad abbracciare la sua giovane fidanzata. Per il momento aspetta di sapere cosa gli diranno dalla Commissione territoriale che rilascia i permessi di protezione internazionale. Chissà se riuscirà ad avere il “documento”, la prima parola in lingua italiana che pronuncia uno straniero in Italia, tanto è legata alla loro vita la possibilità di avere un pezzo di carta che ne certifichi la legittimità a esistere. Precious, invece, ha solo attraversato l’Italia nel suo lungo viaggio dalla Nigeria. Ora è stata ricollocata in Norvegia. Dopo sei anni da quando è partita da casa sua, quest’estate le è arrivata una brutta notizia. Suo padre è morto e lei ancora non riesce a perdonarsi di non averlo salutato per l’ultima volta.
MIO NONNO E I MIGRANTI
Ci sono vite intorno a noi che non parlano italiano, nemmeno mio nonno, lui parlava solo dialetto abruzzese. Ci sono persone che non dicono “mi manchi”, ma “I miss you” oppure “Tu me manques” o افتقدك. Eppure sentono lo stesso sentimento. Uguale e identico. Senza nessuna, neppure minuscola, differenza. Ognuno di loro sente da anni quello che da qualche mese noi, mondo occidentale abituato alla libertà di movimento e di esistenza, sentiamo solo da qualche mese.
COVID E NORMALITA’
È vero il Covid non ha eliminato le differenze economiche e sociali, le ha acuite. Non ha ridotto il divario tra ricchi e poveri, ma l’ha allargato. Eppure un avvicinamento tra primo e terzo mondo, tra parte privilegiata del pianeta e quella sfortunata c’è stato.
Per la prima volta nella nostra vita di occidentali nati nell’emisfero fortunato del mondo ci siamo sentiti oppressi e soli. Non più liberi di muoverci come e quando vogliamo, prendere un aereo andare in un’ora a Londra, fare un fine settimana tra amici, uscire di casa e rientrare, vedere le persone a cui vogliamo bene. Sapere che se non riusciamo a vederle oggi, possiamo andarle a trovarle domani o tra qualche giorno. Ahmed, Ibrahim, Precious non l’hanno mai potuto fare. Sono dovuti andare a cercare queste libertà lontano da casa, lontani dai propri cari, che non sapevano e non sanno quando avrebbero rivisto.
Sarà un periodo di Natale strano, diverso. Così dicono in molti. Sarà strano per chi era abituato alla normalità e non sapeva di averla né quanto fosse preziosa. Sarà, invece, l’ennesimo Natale lontano dalle persone care per i tanti Ibrahim, Precious, Ahmed che in ogni parte del mondo negli anni duemila sanno quanto uno schermo non avvicina ma aiuta a sentirsi vicini e quanto una connessione internet possa restituire un sorriso o una parola dolce per chi conosce troppo bene la parola “nostalgia”.