Migranti: Alì, da profugo a grande chef
Una storia a lieto fine dalla Penny Wirton, scuola di italiano gratuita per migranti, di Trieste. Ce la racconta la volontaria, Marina Del Fabbro, dopo averci accompagnato in questi mesi attraverso la vita di Alì, un giovanissimo ragazzo kashmiro, miracolosamente sopravvissuto alla rotta balcanica, arrivato in Italia minorenne e che ha vagato negli ultimi due anni in cerca di un lavoro e di un futuro: ora è stato assunto a tempo indeterminato in una pizzeria e sogna di diventare un grande chef.
Alì, grande chef
di Marina Del Fabbro
Alì, il ragazzo kashmiro con cui dallo scorso aprile ho fatto lezione di italiano al cellulare, lo ho potuto incontrare di persona solo quest’estate, all’aperto, al tavolino di un caffè. Che fosse magrolino e sembrasse più giovane della sua età lo sapevo già, ma a vederlo a tu per tu mi è parso proprio un ragazzino: fragile, solo occhi e capelli nerissimi. Educato, gentile, riservato, ma assolutamente determinato e pieno di iniziativa. Anche per quanto riguarda l’italiano, mica male! Comprende abbastanza e se non capisce cerca di intuire. Anche a parlare se la cava benino. Soltanto che quello che sa lo dice tutto assieme, e per di più a una velocità incredibile, al punto da non riuscire più nemmeno a parlare.
“Piano, Alì, piano: una parola alla volta”
Ma Alì ha troppe cose da raccontarmi.
“Guarda maestra, il curriculum: io porta in restaurant, in pizzeria. Io chef, grande chef!”
“Bellissimo Alì! Molto bello, bellissimo programma, solo che tu non sei mai stato in una pizzeria e non sai nemmeno cucinare”
“Maestra, io studia: acqua, farina, sale, io sa nome pizze, tutte pizze”
E immediatamente si mette a elencarle tutte, tutto d’un fiato, velocissimo.
“Margherita- funghi-quattro stagioni-boscaiola-calzone-viennese-diavola-verdure: io chef! E anche patente: io studia. Facile: vero-falso… vero”
L’entusiasmo certamente è tanto. Però poi quello che mi dice non corrisponde: i nomi delle pizzerie, i luoghi delle città, li cerco sulla pianta di Trieste ma non esistono. Eppure lui insiste: “Sì, maestra, io impara. Io lavora ma io lavora regolare, contratto, no nero, nero no piace”.
Caro Alì, ti auguro ogni bene ma ci credo poco, penso. E poi, invece, ricevo un invito. E ci vado, con mio marito e una coppia di amici. La pizzeria esiste, non proprio dove mi aveva detto, ma esiste e con grande gioia al forno chi vedo? Alì! Ci sforna quattro pizze superlative. Al nostro arrivo solo un saluto e un sorrisone, non può di più, sta lavorando, ma in tarda serata viene al tavolo assieme al proprietario e allo staff al completo: è tutto andato come mi aveva detto.
“E’ vero”, ci dice il datore di lavoro. “Alì non conosceva il mestiere, ma mi ha colpito per la sua serietà e buona volontà. L’ho messo alla prova. E’ sempre venuto, puntuale. Il mestiere lo ha imparato con gli occhi. Adesso sforniamo 250 pizze a serata. In settimana il suo contatto diventerà a tempo indeterminato”.
Alì è visibilmente soddisfatto e orgoglioso.
E io non sto nella pelle. Quando le storie vanno così, cosa si può volere di più?