Migranti. I viaggi passano, i dolori restano: Etiopia-Italia
Dalla Penny Wirton, scuola di italiano gratuita per migranti, di Bari riceviamo e pubblichiamo la testimonianza di Etenesh, 22enne etiope, la cui vita è spezzata dalla guerra. La fuga, il viaggio verso l’Italia, le donne – amiche, madri, sorelle, sconosciute – lasciate indietro in una terra segnata da violenze e persecuzioni.
Con il supporto delle volontarie Rosalina Ammaturo, Lucia Maranò , Patrizia Frezza, e dell’esperta in materia di diritti delle migrazioni, Erminia Rizzi.
I viaggi passano, i dolori restano: Etiopia-Italia
di Etenesh, 22enne etiope
Mi chiamo Etenesh e sono una ragazza etiope di 22 anni. Oggi vorrei condividere con voi la mia storia.
Poco più di un anno fa, il 3 novembre 2020, intorno alle 23:30, è cambiata la vita di milioni di persone nella regione del Tigray, in Etiopia. Io ero uno di quelle persone. Non avevo mai udito il fragore delle bombe. Non avevo mai vissuto un’esperienza di guerra in vita mia. Ero al telefono con il mio compagno, che viveva all’estero, quando all’improvviso la comunicazione si è interrotta e la luce è andata via. Ricordo molto bene: io e la mia famiglia eravamo colmi di paura. Il viso dei miei vicini di casa era cambiato. Si poteva leggere lo spavento nei loro occhi. “Cosa sta succedendo? Avete notizie?”, erano i primi interrogativi.
LA FUGA. Di lì a poco ricevemmo la notizia che era scoppiata la guerra civile nella mia regione. Il governo federale dell’Etiopia contro la regione del Tigray. Quando hanno iniziato a bombardare la capitale Mekelle, la città da cui provengo, divenne per noi obbligatorio lasciare la nostra casa per salvarci la vita. Fu così che io, i miei genitori, le mie 2 sorelle ed il mio fratellino di un anno fummo costretti a trasferirci in un paesino, a circa 50 km da Mekelle.
Era impossibile trovare un’auto che potesse condurci lì, quindi camminammo 12 ore per arrivarci. Ore interminabili a piedi, senza mangiare e bere. Ma anche dopo esser giunti a destinazione, non trovammo pace. Sentire il pianto dei bambini, vedere i corpi dei militari deceduti al suolo, assistere alla gente che corre per salvarsi la vita: tutto è ancora nella mia mente, lo ricordo come se fosse ieri.
Eravamo più di 50 persone, rifugiate in una piccola casa abbandonata, sentendo le bombe e i carri armati. Dopo che il governo federale cominciò a controllare la mia città di provenienza, cessando momentaneamente le ostilità, decidemmo di far rientro nella nostra casa. Fummo fortunati a tornare sani e salvi. C’era gente che aveva perso un marito o i propri figli a causa della guerra. I miei genitori, nel frattempo, avevano perso il lavoro.
IL VIAGGIO. Dopo circa 40 giorni riuscii finalmente a sentire la voce del mio ragazzo, essendo state ripristinate temporaneamente le telecomunicazioni. È stato davvero emozionante. Dopodiché abbiamo cominciato ad escogitare un modo per lasciare il paese, poiché c’era ancora un clima di forte instabilità e insicurezza. I voli pubblici verso la capitale Addis Abeba cominciavano a scarseggiare, quindi ho preso il primo aereo utile, congedando dolorosamente la mia famiglia, le mie sorelle e il mio fratellino. Ad Addis Abeba mi sono ricongiunta con il mio compagno, che mi ha aiutata e supportata nelle procedure per ottenere il visto per l’Italia.
Nell’aeroporto di Addis Abeba ho subito pressioni psicologiche, con infinite domande dei militari e numerosi controlli del mio passaporto, oltre a lunghe ed estenuanti attese. Tutto questo, credo, perché sul mio passaporto era riportata la mia origine, il Tigray. Come se fosse una colpa, sebbene io non mi fossi mai iscritta a sigle di partiti politici.
L’ARRIVO. Alla fine sono riuscita a giungere in Italia. Ma questa storia non finisce qui: ci sono ancora migliaia di ragazze che vengono violentate, sfollate, ridotte alla fame, così come 5 milioni di civili senza alcun accesso a luce, acqua, gas, cure mediche, banche, rifornimenti di benzina, telecomunicazioni e internet. Un assedio che ormai dura da più di un anno.
*** Per scelta editoriale, in accordo con lo stile dettato dal fondatore Eraldo Affinati nei suoi libri, i racconti dei migranti della Penny Wirton, non vengono né modificati, né corretti. I testi sono sottoposti soltanto a una lieve revisione laddove risulti compromessa la comprensione ***