Bari: storie migranti contro la violenza sulle donne

Una giornata di confronto in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne

A Bari in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, che si svolge in tutto il mondo il 25 novembre, la scuola di italiano gratuita per migranti Penny Wirton ha organizzato un’iniziativa di confronto attraverso la quale sono state coinvolte in modo diretto le studentesse straniere.

L’evento si è svolto a seguito di alcune violenze che si sono verificate in città ai danni di giovani lavoratori e studenti bengalesi. “Il Centro servizi per le famiglie del quartiere libertà e la Squola senza confini Penny Wirton Bari esprimono la condanna degli atti di violenza – si legge in una nota congiunta delle associazioni -. Occorre riaprire un dialogo tra abitanti del quartiere e migranti residenti perché si superino pregiudizi e paure che sono alla base di molti episodi di violenza.

LE TESTIMONIANZE

AFGHANISTAN

Mi chiamo Fatima F. vengo dall’Afghanistan. Mi sono laureata in economia in Afghanistan e per diversi anni ho lavorato a fianco delle donne, lottando contro le oppressioni esistenti e il regime dei talebani. Con l’arrivo al potere dei talebani, sono stata costretta a lasciare il mio Paese. E oggi sono qui per parlare della situazione delle donne in Afghanistan. La situazione delle donne in Afghanistan è molto difficile. Sotto il governo di forze fondamentaliste come i talebani, le donne subiscono un’oppressione senza precedenti. Dopo il ritorno al potere dei talebani, i diritti delle donne sono stati fortemente limitati. Molte donne non possono più lavorare, studiare o uscire di casa senza essere accompagnate da un uomo della famiglia. Le scuole superiori per le ragazze sono state chiuse e le donne sono state private di molti dei loro diritti fondamentali. Queste restrizioni non solo violano i diritti delle donne, ma le escludono completamente dalla vita pubblica. Le politiche dei talebani hanno sistematicamente relegato le donne ai margini della società. Di conseguenza, la vita quotidiana delle donne in Afghanistan è piena di paure e restrizioni. Essere donna in Afghanistan oggi significa essere invisibile, senza diritti, dignità e futuro. Tuttavia, queste condizioni non possono spegnere i sogni e le speranze delle donne afghane. Nonostante queste difficoltà, c’è ancora un filo di speranza. Ci sono donne coraggiose che continuano a lottare per i loro diritti, trovando modi per imparare e insegnare in segreto, anche a rischio della loro vita. Alcuni gruppi femminili cercano di aiutarsi reciprocamente, sfidando le politiche oppressive del regime. Questo dimostra la loro determinazione a non arrendersi. Il mondo deve fare di più per trasformare queste speranze in realtà. La comunità internazionale ha il dovere di sostenere le donne in Afghanistan, affinché possano vivere libere, andare a scuola, lavorare e ricevere il rispetto e la dignità che meritano. Le donne afghane hanno diritto a una vita migliore, e il nostro sostegno può davvero fare la differenza.

SENEGAL

Mi chiamo Maimouna G., vengo dal Senegal. Sono in Italia da quasi 7 anni. Sono andata via dal mio Paese perché volevo curarmi in Europa per poter avere bambini. La prima cosa che ho fatto quando sono arrivata è stata studiare l’italiano. Grazie a tante amiche che mi hanno accolta e accompagnata ho realizzato il mio sogno, quello di aprire un negozio etnico. Vi parlo di un caso specifico di violenza sulle donne. Nella famiglia senegalese quando non puoi avere figli subisci una violenza morale che è peggiore di qualunque altro tipo di violenza. Dicono parole su di te che non potrai mai dimenticare. La discriminazione è il minimo che possono farti. A loro non importa niente della tua sofferenza, ciò che conta per loro è che tu dia loro l’erede. Per alcuni, il ruolo della donna è solo quello di partorire, le decisioni familiari spettano all’uomo. Quando si tratta di prendersi cura del bambino piccolo, ci si ricorda di sua madre, ma quando cresce è figlio di suo padre. Molto spesso la donna non ha nessuna autorità in famiglia.

CAMERUN

Mi chiamo Catherine, vengo dal Camerun, sono in Italia da un anno e 7 mesi, ho ottenuto l’asilo politico e vivo e lavoro a Bari. Ho lasciato il mio Paese perché io e mia figlia non rispettavamo le barbare usanze che consistono nel vendere in sposa al miglior offerente bambine di 9-10 anni. In alcune aree remote del Camerun, le donne non hanno diritto all’istruzione, alcuni lavori sono loro vietati e, in generale, viene loro tolta la libertà di esprimersi e di agire. Oggi sono una giovane madre forte, determinata ad avere successo e a offrire a mia figlia un futuro pieno di colori.

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